La pandemia di Coronavirus ha comprensibilmente catalizzato l’attenzione collettiva e i drammatici bollettini di guerra su contagiati e deceduti sono seguiti incessantemente evocando le domeniche di mezzo secolo fa con le radioline incollate all’orecchio per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”.
Il costante aggiornamento è garantito dal martellante ritmo di servizi televisivi e dal ribollire dei siti web che proiettano immagini, grafici e statistiche. Il clima di ragionevole allarme ha persino fatto riscoprire l’utilità dell’igiene personale e trasformato il semplice lavarsi le mani in cautela straordinaria. L’invito a non uscire di casa e a limitare – complice il metro di distanza – affettuosità di ogni sorta o anche semplici relazioni interpersonali.
Le tecnologie – Internet in primis – hanno così guadagnato il ruolo di contesto succedaneo della nostra vita quotidiana. Il telelavoro, la didattica a distanza, gli incontri virtuali grazie a webcam e opportunità di comunicazione evoluta, in qualche caso persino la telemedicina: improvvisamente si è scoperto che “certe cose” si possono fare anche senza raggiungere l’ufficio e la scuola, quasi prima d’ora fosse impensabile (o addirittura sacrilego) sfruttare le possibilità messe a disposizione dal progresso.
E quel che è terribile è il vedere la malcelata ritrosia di parecchie realtà ad accettare un nuovo train de vie, a prendere atto che – come diceva il “dottor Frankenstine” nell’immortale pellicola di Mel Brooks – “si può fare”. Si innesca qui una riflessione. C’era bisogno della peste bubbonica per capire che certe attività potrebbero essere svolte “comodamente seduti a casa nostra” come recitava un vecchio slogan pubblicitario? Nello stupore generale si è affacciato il “lavoro agile”, ha fatto capolino lo “smart working”. Un sistema che dovrebbe e potrebbe rappresentare la normalità è stato spacciato addirittura come soluzione rivoluzionaria.
Se la sensibilità umana non rientra tra i canoni della buona gestione, stupisce invece l’oggettiva impreparazione di imprese, enti pubblici e istituzioni dinanzi al cambiamento ormai disciplinato per legge. Quando si legge che “si stanno organizzando” o si constata che “i sistemi informatici non sono predisposti” o “l’architettura di rete non poteva prevedere un così elevato numero di utenti esterni”, si è costretti a prendere atto che anche le “persone giuridiche” soffrono di gravi patologie invalidanti. Il morbo dell’ignoranza si è silentemente insinuato alla faccia della pervasività del progresso tecnologico e soprattutto procedurale. Il vaccino della cultura, ahinoi, sembra non funzionare.